Era il 9 febbraio del 1991. La Repubblica Popolare Socialista d’Albania era caduta. Da quel giorno più di 10mila cittadini albanesi arrivarono al porto di Durazzo. Per espatriare. Per approdare in Italia. Alla ricerca di lavoro. Di una possibilità. Per sé stessi e i loro cari.
Gli esperti parlano oggi del primo arrivo di massa di immigrati in Italia. Il 7 marzo 1991 27mila cittadini albanesi raggiunsero Brindisi. L’8 agosto il mercantile Vlora approdò a Bari con altri 20mila in fuga dall’Albania.
Chi ha affrontato il viaggio in mare a bordo di gommoni fatiscenti non dimenticherà mai quello che ha vissuto. Così come non dimenticherà chi non ce l’ha fatta. Ricordi che riaffiorano ancora oggi guardando a quei migranti che arrivano da un altro mare con le stesse speranze. E sono accolti con la stessa diffidenza e paura.
C’era una volta un clandestino
Eltjon Bida aveva 17 anni e due mesi quando è salito su uno di quei gommoni, che abbiamo visto per mesi nei telegiornali italiani arrancare nelle acque dell’Adriatico. Uno di quei barconi che anche la cronaca più recente ci mostra spesso in balia delle onde.
Eltjon è arrivato in Italia nel 1995. Oggi vive a Milano con la moglie inglese e i loro due figli.
Ha scritto un libro edito da Policromia, C’era una volta un clandestino. Un romanzo autobiografico che racconta difficoltà, paure, speranze, riscatto di chi ha lasciato la propria casa in cerca di una terra promessa.
Eltjon è partito da Bashkim, un paesino di 600 abitanti in provincia di Fier. Voleva venire in Italia perché in Albania non aveva un futuro. C’erano solo povertà e fame. La disperazione lo ha guidato fino a quel gommone che lo ha portato dall’altra parte dell’Adriatico.
Una decisione sua, come ci racconta, dal momento che il padre non sapeva se lasciar partire o no quel figlio che era però sicuro della sua scelta.
Sapeva che in Albania avrei avuto solo giorni infelici e dunque mi ha detto: Ok, parti. E poi diciamocelo, si partiva per Italia. Il paese, non solo dei miei sogni ma di tutti gli albanesi.
Già, la terra promessa. Che per lui, allora 17enne, rappresentava anche molto di più. Soffriva di un problema renale. E in patria nessuno era riuscito ad aiutarlo.
L’unica proposta dei medici era stata di operarmi, facendomi un taglio tra la pancia e la schiena, in seguito al quale avrebbero valutato se tenere il rene o meno. Anche ad una mia cugina avevano asportato un rene e all’epoca si parlava molto di vendita degli organi. Quindi c’era tanta paura.
Dall’Albania all’Italia
Per Eltjon la scelta è stata partire. In un viaggio che non dimenticherà mai.
Ricordo il terrore che c’era in quel gommone e l’improvvisa voglia di abbracciare le persone a cui volevo bene.
Il terrore, perché quando vedi solo acqua, pensi alla morte e preghi Dio di continuo. A me veniva in mente la scomparsa di due miei cugini che erano partiti qualche giorno prima di me. Di loro, non si è mai saputo la fine che hanno fatto. C’erano delle voci che dicevano che molto probabilmente, nella notte della loro partenza, il gommone aveva cominciato ad imbarcare acqua e gli scafisti, per alleggerire il peso, avevano sparato a tutti, per poi buttarli nel mare come dei topi morti.
Di quelle 25/30 persone che erano partite quella notte, non si sono mai avuto notizie.
Il gommone di Eltjon è stato fatto sbarcare tra Otranto e Lecce. Era buio. Era da poco passata la mezzanotte. Tutti erano bagnati. Era febbraio. Il freddo era tagliente.
Appena messi i piedi sulla riva gli scafisti ci hanno lasciati con due italiani: ci attendevano nascosti nella foresta. Anche se la somma di un milione di vecchie lire che avevamo pagato era per portarci fino alla stazione di Lecce, i due italiani ce ne chiesero altre centomila per spostarci da lì dov’eravamo.
Il gruppo venne portato in un magazzino abbandonato. All’alba un taxi venne a prenderli. E dovettero pagare altre 40mila lire per andare alla stazione di Lecce. Poi un pullman diretto a Pescara.
In Italia, tra aspettative e realtà
Un viaggio pieno di ostacoli, difficili da s