Quando pratichiamo discriminazioni verso i disabili: Elena e Maria Chiara ci aiutano a capire perché

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Monia Donati
Monia Donati
Giornalista pubblicista, esperta in comunicazione e marketing, curiosa del mondo.
Tempo di lettura stimato: 5 minuti

Facciamo un decalogo delle frasi fatte più inflazionate e da evitare sul tema disabilità?

È dura sceglierne dieci! Il nostro decalogo potrebbe essere questo:

“Poverino!”
Un classico. Non si premurano nemmeno di dirlo a bassa voce per non farsi sentire.

“Hai avuto un incidente o sei nato così?”
Perché girare con una carrozzina per alcuni è un invito a chiedere la storia medica di una persona.

“Lui cosa vuole da bere?” [detto da un cameriere]
Fa il paio con il cameriere che non porta il menù, perché si sa che le persone disabili non sanno leggere il menù né decidere per sé.

“Che bravo che sei ad uscire!”
Non abbiamo capito bene cosa significa. Ci fanno i complimenti perché non siamo reclusi in casa?

“Sei da solo? Non c’è nessuno con te?”
No, sono scappato da mia madre e mi sono perso.

“È bello vedere persone come te che vanno a ballare!”
Sssì. È bello vedere anche te!

“Amore! Tesoro! Piccolo/a! Cucciolo/a!” [inserire pat pat sulla testa]
Ehm.. Come dirtelo? C’è una cerchia ristretta di persone che mi possono chiamare così, e… non ne fai parte.

“Il mio vicino di casa è in carrozzina. Lo conosci?”
No, non ci riuniamo in club segreti di persone disabili dove ci conosciamo tutti. Specialmente se abitiamo in due città diverse.

“Hai fatto l’università? Ah, che grande che sei!”
Guarda, non ci vuole una forza d’animo particolare. Certo, avere l’università accessibile e l’assistenza aiuta.

“Voi disabili siete un esempio per tutti noi!”
Urca, che responsabilità. E pensare che io sto solo facendo la spesa e comprando patatine e schifezze varie!

Elena, anno ‘95, e Maria Chiara, anno ‘91, sono le acute, ironiche, graffianti, combattive penne del blog wittywheels. Sono due donne che amano viaggiare. Tre anni vissuti a Londra e poi viaggi in Europa, Italia, Tunisia. Anche se spesso bisogna fare una pianificazione puntigliosa, a causa delle barriere architettoniche. Sono sorelle. E sono disabili.

Image by Engin_Akyurt on Pixabay

Elena cito da un tuo profondo e intelligente articolo: “La discriminazione per il fatto che sono disabile è più forte e a volte oscura la discriminazione per il fatto che sono donna”.
Parliamo di inclusione e parità di genere. Tu come la vedi?

In Italia siamo ancora un paese molto maschilista (e razzista e omofobo). In ogni caso l’abilismo (la discriminazione e lo stigma verso le persone disabili) è ancora più forte e pervasivo del sessismo, anche perché la sua stessa esistenza è quasi sconosciuta.

Aggiungo sempre citandoti: “Nessuno vuole decidere del mio apparato riproduttivo; qualcuno pensa che il mio apparato riproduttivo non esista”.

Era un riferimento a certi ambienti femministi in cui ancora la disabilità non viene inclusa nell’approccio intersezionale, tanto che ad esempio nei discorsi sui diritti riproduttivi le persone disabili spesso non sono contemplate: si dà per scontato che non abbiano figli, le apparecchiature per gli esami ginecologici e per la mammografia spesso non sono accessibili, non si parla del fatto che i genitori disabili quando non hanno abbastanza assistenza devono fare sacrifici affinché i bisogni dei propri figli siano soddisfatti, eccetera.
Ma la frase in realtà è un po’ imprecisa: la situazione a livello più generale è ancora più preoccupante.
C’è chi ha voluto e vuole decidere eccome sui corpi delle persone disabili. Ci sono state campagne di sterilizzazione forzata in vari paesi, ci sono casi di isterectomie involontarie ancora oggi, esiste l’Ashley Treatment (rimozione dei caratteri sessuali delle persone disabili per arrestare la crescita e rendere più facile il lavoro dei caregiver). Insomma, ci sono varie tendenze eugenetiche: in questo caso in pratica qualcuno vuole decidere sul nostro apparato riproduttivo nel senso che vorrebbe che non esista.

Siete interessate alle tematiche ambientali e alle mobilitazioni dei giovani di #fridaysforfuture per contrastare i cambiamenti climatici?

Sì, pensiamo che siano mobilitazioni molto importanti perché sono proteste nate dal basso con degli obiettivi e delle proposte concrete per uno dei problemi maggiori della nostra epoca.
Fa ben sperare in una nuova generazione più attiva, capace di organizzarsi e protestare e di partecipare alla politica anche grazie alle possibilità offerte dal passaparola online.
Tra l’altro, non si sottolinea spesso che il loro volto, Greta Thunberg, ha l’Asperger e condivide con molte persone autistiche una grande passione in quello che fa, la capacità di essere diretta e una bassissima tolleranza alle ingiustizie.
Al contrario, alcuni hanno sottolineato la sua disabilità per screditare il suo messaggio, senza rendersi conto che invece lei per molti è motivo di disability pride.

Politica: la disabilità porta voti?

Ahimè sì, come ogni altra categoria marginalizzata e poco rappresentata, la disabilità porta voti (ma anche soldi e prestigio sociale: basta lavorare a favore delle persone disabili e diventi automaticamente un santo).
Sulla disabilità ci si può far belli (solo a parole ovviamente) e ci si può fare sopra propaganda facile, contando sul fatto che i movimenti di persone disabili combattivi sono pochi e l’opinione pubblica è poco informata.
Un caso eclatante recente è il mancato aumento delle pensioni di invalidità, sbandierato in campagna elettorale e mai messo in atto (ma pensandoci, forse non siamo mai usciti dalla campagna elettorale).
In tutto questo il Ministero della disabilità è servito sì ad acchiappare non pochi voti di persone disabili speranzose, ma non ha fatto assolutamente nulla di buono per la categoria: le misure per il reddito di cittadinanza al momento sono discriminatorie verso le persone disabili perché si considerano le pensioni di invalidità come reddito!

Mettete spesso sotto la lente l’abilismo ovvero la discriminazione nei confronti dei disabili. Quali sono le forme più comuni di abilismo?

L’abilismo è ogni forma di ghettizzazione delle persone disabili; sono i soldi che mancano sempre per l’assistenza, per gli insegnanti di sostegno, per far andare un bambino disabile in gita, per abbattere le barriere architettoniche (ma che non mancano mai per finanziare altre cose).
A livello di pensiero comune, l’abilismo è quella patina di compatimento, quell’idea stereotipata di “poverino”, dell’individuo fragile, disadattato, da compiangere e accudire, augurandoci che la sua disabilità non accada a “noi”. Inoltre, l’abilismo è sottovalutare in partenza le persone disabili e quindi stupirsi, di volta in volta, se una persona disabile fa una o più di queste cose: lavorare, studiare, pensare autonomamente, avere partner, parlare, andare in giro non accompagnato, avere una vita felice.

L’autonomia e la dignità sono tematiche che ci stanno a cuore. Ne parliamo spesso con riferimento al lavoro, alla conciliazione tra vita privata e professionale, tra necessità ed aspirazione.
Che significato hanno autonomia e dignità nel vostro vissuto?

L’autonomia è un concetto fondamentale: tutti vogliamo libertà e indipendenza. Che poi tutti la abbiano è un altro discorso. Personalmente, siamo autonome grazie ai nostri assistenti personali: alle persone non autosufficienti in genere questo diritto viene negato perché i fondi stanziati per assumere assistenti sono poco più che un’elemosina.
La dignità è un concetto un po’ ambiguo, difficile da definire. Se con dignità intendiamo il valore che viene assegnato ad un’esistenza è chiaro che nella nostra società c’è una netta separazione tra il valore dato alle persone disabili e a quelle non disabili. Lo viviamo quotidianamente nell’accesso negato in molti locali (ma anche uffici pubblici) senza rampe o nella politica assente in materia di disabilità.

Maria Chiara, in un tuo articolo parli della rappresentazione al cinema e sui media in genere della disabilità associata all’“idea di una vita tragica, l’idea di essere persone nate nel corpo sbagliato e quindi imprigionate nel proprio corpo. Trattate con paternalismo, infantilizzate come vittime, normate. Sono persone spesso rappresentate come “altro”, e non persone come tutti che lavorano, studiano, partecipano, amano”.
Come comunicheresti tu in un ipotetico visual e quale il messaggio più importante da passare o per cui lottare?

C’è davvero l’imbarazzo della scelta. Nei media che parlano di disabilità vediamo praticamente solo eroi oppure vittime. Io adoro il cinema, ma sappiamo che quando c’è da giocare sugli stereotipi e risultare rassicuranti, gli autori spesso non hanno scrupoli. Quello che mi manca è la normalità, vorrei vedere personaggi disabili “normali”, passami il termine, che fanno le cose di tutti i giorni, lavorare, divertirsi, avere relazioni.
Sembra scontato ma purtroppo non sono cose che si vedono spesso (parlo dei film).
Poi mi toglierei un fastidio personale: le scene di sesso con persone disabili, che sono scarse o inesistenti. Guardiamo a due film molto conosciuti, “Io prima di te