Dal 9 al 12 giugno la città di Francavilla al Mare ospita l’undicesima edizione di Filosofia al Mare, rassegna organizzata dalla Società Filosofica Italiana con l’alto riconoscimento del Presidente della Repubblica Italiana. La direzione scientifica della rassegna è affidata al professor Carlo Tatasciore, presidente della sezione di Francavilla della SFI.
Il tema di quest’anno è “Conversazioni sulla giustizia” e a parlarne saranno filosofi, magistrati, teologi e studiosi che hanno affrontato il problema sotto vari aspetti. L’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, il filosofo Umberto Curi, il teologo Vito Mancuso, la storica Vinzia Fiorino e i filosofi Giacomo Marramao e Massimo Cacciari. L’apertura di Filosofia al Mare, giovedì 9 luglio alle ore 21,30 in piazza della Stazione, è affidata all’ex magistrato e giurista Colombo e al professor Curi. Il primo – autore del libro “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla” (edizioni Ponte delle Grazie, Firenze 2020) – interverrà su “Carcere e deterrenza”. Il secondo – autore del saggio “Il colore dell’Inferno. La pena tra vendetta e giustizia” (Edizioni Bollati e Boringhieri, Torino 2019) – relazionerà invece su “Legge e giustizia”. E sono proprio le riflessioni del giurista e del filosofo ad affrontare un tema fino a oggi quasi “evitato” dalla riflessione filosofica: ovvero
la necessità di definire uno statuto filosofico della pena.
«In Italia il 68% dei detenuti una volta fuori dal carcere torna a delinquere», spiega Umberto Curi. «Eppure nella nostra Costituzione, legge fondamentale dello Stato Italiano, la pena detentiva è ammessa solo in funzione rieducativa. L’istituto carcerario è nato nel Settecento con lo scopo di umanizzare la pena. Prima della pena detentiva, infatti, chi aveva commesso un reato veniva sottoposto a indicibili afflizioni, torture, mutilazioni. Gli stessi condannati a morte, prima dell’istituzione della ghigliottina, venivano decapitati a colpi di ascia o a fil di spada e morivano dopo atroci sofferenze. La pena non era altro che una vendetta per compensare il male commesso. Questa “umanizzazione” della pena, però, negli anni ha di fatto trasformato le carceri in vere e proprie scuole di delinquenza. Da qui l’idea innovativa di trasformare la giustizia detentiva in giustizia retributiva».
Sia le riflessioni di Colombo che quelle di Curi convergono sull’inutilità della detenzione in carcere e sulla necessità della pena riparativa. Ma mentre l’ex magistrato si muove su un terreno tecnico circoscritto, in un ambito non caratterizzabile in una disciplina specifica, Curi invoca l’urgenza di un profondo discorso filosofico sulla pena che annulli il paradosso attuale per cui la mancanza di giustizia viene sopperita dal diritto.
E prende in esame tre fattori principali.
«Anzitutto», riprende il filosofo «l’insoddisfazione per gli esiti della pena detentiva, legata alla scarsa effettività di quest’ultima nella riduzione della recidiva. In secondo luogo la perdita di legittimazione delle sanzioni carcerarie, soprattutto quando determinano frizioni con il sistema dei diritti umani. Infine il disconoscimento, da parte del sistema penale, della vittima e dei suoi diritti di accesso alla giustizia».
Ma come preparare a questa rivoluzione culturale una società che è abituata a punire gli esseri umani già da bambini invece di educarli alla responsabilità? «Fin dai suoi esordi», conclude Umberto Curi «la Restorative Justice ha inteso costituirsi come un modello di giustizia che coinvolge volontariamente il reo, la vittima e la
comunità nella ricerca di soluzioni al conflitto, con il fine di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza. Essa si pone oltre la logica del castigo, proponendo di considerare il reato non più come un